Il farmacista del ghetto di Cracovia
Questa volta più che un racconto di viaggio vi voglio fare la recensione di un libro che ho appena letto: Il farmacista del ghetto di Cracovia di Tadeusz Pankiewitz.
Un rapido riassunto di storia
Nel libro il farmacista del ghetto di Cracovia stiamo parlando della seconda guerra mondiale, di nazismo e di olocausto.
Negli anni della guerra gli ebrei in Europa si trovarono ad affrontare una serie crescente di terribili ingiustizie, iniziate con le leggi razziali e culminate con lo sterminio di massa.
Gli ebrei di Cracovia erano una comunità numerosa e benestante, si stimavano dalle 60.000 alle 80.000 persone.
Vivevano in gran parte nel quartiere Kasimierz e conducevano una vita del tutto comune e normale fino al settembre del 1939, quando i tedeschi invasero Cracovia.
Due mesi dopo, nel novembre del 1939, vennero emanate le leggi per ridurre i diritti degli ebrei, le sinagoghe vennero chiuse. Gli ebrei potevano circolare solo con un bracciale che ne permettesse il riconoscimento. Da liberi a schiavi in due mesi.
LA NASCITA DEL GHETTO
C’erano troppi ebrei a Cracovia, e nel maggio del 1940 ci fu la prima grande espulsione e la conseguiente nascita del ghetto: rimasero solo 15.000 persone, che vennero costrette in una piccola zona del quartiere Podgorze, subito aldilà del fiume.
Case in cui vivevano insieme più famiglie, uno spazio vitale ridotto e circondato da alte mura di cui adesso rimangono solo brevi tratti. Racconti dell’epoca parlano di appartamenti utilizzati da 4 o 5 famiglie, che si trovavano così costretti a condividere la quotidianità con perfetti sconosciuti.
Le mura avevano una forma che ricordava molto le lapidi dei cimiteri ebraici, impossibile non pensare alla morte guardando il ghetto.
Eppure la vita nel ghetto fiorì di nuovo, malgrado la paura, la miseria, l’incertezza la vita ebbe la meglio. Gli ebrei del ghetto riaprirono negozi, scuole, locali.
Alcuni pensavano che fosse quasi meglio esser confinati nel ghetto, che fossero più liberi lì che in città. Più protetti.
I pochi che avevano colto i segnali cercarono in ogni modo possibile di fuggire, ma la maggioranza aveva una stolida fiducia nel fatto che sarebbero riusciti a resistere fino alla fine della guerra. Non riuscivano ad immaginare che le cose avrebbero potuto peggiorare ulteriormente.
Questa è una costante nel libro, la speranza che è più forte anche del buonsenso, l’idea che se la sarebbero cavata in qualche modo contro ogni pronostico.
Una domanda che mi sono fatta più e più volte mentre camminavo sul lunghissimo viale centrale di Birkenau: “Com’è possibile che così tanta gente si sia lasciata uccidere, cancellare dal mondo senza quasi opporre resistenza? Quando scendevano da quel treno com’è possibile che avessero ancora la forza di continuare a sperare di poter sopravvivere?”.
Pankiewitz si è ritrovato suo malgrado titolare dell’unica farmacia del quartiere ed unico non ebreo a risiedere stabilmente nel ghetto.
La sua farmacia affacciava direttamente sulla piazza principale del ghetto, lui è stato testimone delle innumerevoli atrocità commesse dai tedeschi in quel periodo.
Il suo non è un romanzo da scrittore professionista e non è nemmeno un diario. Il farmacista del ghetto di Cracovia è una cronaca quasi giornalistica di quello che è successo, un modo per cercare di tener viva la memoria di chi non ce l’ha fatta, per documentare i crimini commessi e cercare di far capire al resto del mondo cosa succedesse realmente in quegli anni.
La propaganda nazista infatti costruiva della documentazione, completamente falsa, per dimostrare al resto del mondo la loro umanità in guerra.
Teatrini veri e propri allestiti solo per fare belle foto, e crimini atrici nascosti agli occhi di tutti.
E le voci che correvano nel ghetto, tutte false, messe in giro ad arte per tener buoni gli ebrei nonostrante tutte le vessazioni.
Dalla creazione del ghetto non passò molto tempo prima della prima espulsione.Foto esposta al museo di Auschwitz e Birkenau
Fin dall’inizio la popolazione era divisa fra abili al lavoro e inabili, il ghetto A era per chi era inabile al lavoro, il ghetto B era per chi poteva lavorare.
La motivazione ufficiale della prima espulsione è che erano in troppi, e che quindi avrebbero trasferito gli inabili al lavoro in zone rurali, dove avrebbero coltivato la terra e ricostituito le loro comunità, lontane dai tedeschi, in terre di confine.
L’Ucraina era la nuova terra promessa, la gente espulsa ci credeva davvero e preparava bagagli portandosi dietro tutto il necessario per iniziare una vita nuova.
Le loro valige con nomi ed indirizzi scritti con la vernice bianca in bella calligrafia le abbiamo viste nei magazzini di Auschwitz. Le loro stoviglie, pronte per la nuova casa ammucchiate in cataste alte fino al soffitto.
La loro terra promessa era un forno crematorio.
Pankiewitz racconta con precisione ogni espulsione, parla del ghetto che diventava via via sempre più piccolo e della gente che pian piano iniziava a rendersi conto – troppo tardi ormai – che aveva fondato le sue speranze su informazioni compoletamente false.
Poche settimane prima della liquidazione del ghetto iniziarono ad arrivare le notizie vere, anche se parziali: dove finiva la gente che portavano via?
Non si sa, le rotaie finivano in un bosco, ma dentro quel bosco qualcosa bruciava dalla mattina alla sera e spargeva un fumo nero ed oleoso nel cielo.
Non tutti finivano nei campi di sterminio. La popolazione ancora abile venne internata nel campo di concentramento di Plaszow, dove gli ebrei erano condannati ai lavori forzati.
Dopo aver visto con i suoi occhi il terribile spettacolo della liquidazione del ghetto il farmacista del ghetto di Cracovia Pankiewitz racconta di essere rimasto al suo posto nella farmacia. Da solo in un quartiere popolato di fantasmi.
Fantasmi veri e propri, gente che era sfuggita alla deportazione nascondendosi e che adesso cercava di sopravvivere in qualche modo.
Da lì in poi le cose precipitarono in fretta, con il finale che tutti conosciamo.
Il ruolo di Pankiewitz non è stato solo quello dell’osservatore. E’ rimasto al suo posto con coraggio ed intelligenza, cercando di aiutare materialmente con cibo e medicine la popolazione del ghetto. Ha creato rifugi per chi aveva bisogno di nascondersi. Ha aiutato gli abitanti del ghetto a mantenere i contatti con il mondo esterno.
Alla fine della guerra fu uno dei testimoni dell’accusa al Processo di Norimberga, contro i criminali di guerra nazisti.
Per tutto quello che ha fatto e per tutte le vite che ha salvato è stato nominato “Giusto delle nazioni” nel 1983.
Sempre nel 1983 la sua farmacia è diventata un museo. La piazza di fronte – la piazza delle espulsioni – è diventata la piazza degli eroi ed ospita un monumento pieno di significato.
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