Auschwitz e Birkenau, le fabbriche di morte
Ho pensato un bel po’ prima di decidere di visitare Auschwitz e Birkenau, e poi ho pensato un bel po’ su come raccontarli.
In genere le parole mi escono come un fiume, stavolta invece devo tirarle fuori con la forza e valutarle una per una, non voglio tirare fuori troppe emozioni.
Ho apprezzato veramente tanto il modo in cui la guida ci ha accompagnati in questi posti atroci, il suo rispetto profondo per la storia e le persone, cercherò di raccontarvi questi posti come ce li ha raccontati lui.
I campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau vengono visitati ogni anno da milioni di persone. Nell’anno 2017 hanno contato 2.200.000 visitatori, la guida ci ha fatto notare gli scalini degli edifici ad Auschwitz, scavati dai passi dei visitatori.
Penso e ripenso a questi numeri e al fatto che, nonostante i milioni di persone che ogni anno imparano da luoghi come questi e tengono viva la memoria, nel mondo la tendenza sia ancora quella che ha ispirato queste fabbriche di morte.
INDICE
Entrando ad Auschwitz la mia primissima impressione è stata: ” Non è come lo immaginavo”
Sembra innocuo, assomiglia un po’ a quei quartieri di case popolari che si vedono a volte nel nord Europa.
Blocchi di edifici di mattoni rossi, severi e senza civetteria e praticelli curati. I viali del campo sono fiancheggiati da alberi, l’impressione è che sia un posto del tutto normale, anche se l’ho visto in foto e filmati già dozzine di volte.
I vari blocchi, identificati da un numero, ospitano il percorso museale.
Il percorso è graduale, si parte da dati e statistiche, poi foto e piano piano si arriva alle persone coinvolte e alle loro storie.
Alcuni cartelli evidenziano frasi di gente dell’epoca, e con un brivido riconosco argomenti che sono attuali anche adesso, dopo più di 70 anni.
Devo ripercorrere brevemente gli avvenimenti che hanno portato alla creazione di posti come questi.
E’ successo tutto nell’arco di pochi anni, dal 1933 al 1945.
Nel 1933 Hitler salì al potere in Germania e in un solo anno ne divenne il dittatore.
A lui ed al suo partito si devono le leggi razziali che in poco tempo hanno privato gli ebrei di tutti i loro diritti, e sempre lui ha ideato la cosiddetta soluzione finale, che ha portato alla costruzione di posti come questi.
Dopo la fine della prima guerra, le difficoltà patite, la crisi mondiale forse c’era bisogno di qualcuno a cui dare la colpa, su cui concentrare tutta la rabbia per quelllo che non funzionava.
Non occorre essere particolarmente svegli e attenti per fare paralleli con quello che sta succendo proprio adesso in tutta Europa.
Pochi anni di una follia forte e condivisa che hanno dato come risultato la cancellazione di milioni di persone.
La visita procede in un crescendo di emozioni e quando arriviamo alle stanze che custodiscono gli oggetti quotidiani racconti nei magazzini del campo il gruppo ammutolisce.
Il silenzio è completo mentre guardiamo senza capacitarci la montagna di capelli femminili che occupa una stanza intera.
Non posso fare a meno di notare fiocchi, forcine. Treccine di capelli chiari, forse di una bambina.
All’ingresso nel campo alle donne venivano tagliati i capelli, che poi venivano venduti e da cui ricavavano imbottiture per materassi.
La stanza successiva è piena di bagagli. Su ognuno in bella calligrafia è scritto il nome e l’indirizzo dei proprietari.
Non avevano mai perso la speranza e avevano portato con sè tutto il necessario per ricominciare una vita nuova, in un posto più libero.
La guida ci ripete con una gentile cantilena che gli ebrei erano stati ingannati, non sapevano che li avrebbero portati a morire, erano convinti che li portassero in zone lontane dell’Ucraina, a coltivare la terra.
Partendo loro portavano tutto il necessario per la nuova vita, tutto quello che avevano di più caro e prezioso.
Durante la visita guidata l’ha ripetuto decine di volte, capisco solo adesso che una verità così difficile ha bisogno di tempo per essere assimilata. Adesso posso capire perchè gli ebrei credevano con così tanta forza nella storielle che venivano raccontate. Volevano credere che l’orrore non potesse essere più grande di quello che già vivevano, e continuavano a pensare che ce l’avrebbero fatta, che se la sarebbero cavata in qualche modo.
Solo ora capisco una frase – molto famosa – dal diario di Anna Frank: “Invece (i sogni) me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all’intima bontà dell’uomo. Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione.”
Anche per me è incomprensibile, inconcepibile pensare che quello che ho visto sia successo davvero, forse è qualcosa che una persona sana di mente non può capire.
Montagne di occhiali, di vasellame. Oggetti della vita di tutti i giorni, come spazzole e pettini. Vestiti. Alcuni vestiti piccolini, da bambini.
E scarpe. Montagne di scarpe che arrivano al soffitto.
Sono quasi tutte scarpe povere, da uomo, scure, ma alcune attirano l’occhio. Sono piccole, graziose, di un rosso squillante. Saranno state di una giovane donna? Sarà riuscita a cavarsela?
Ogni cosa che vedo smette di colpo di essere un oggetto e urla di rabbia e di impotenza.
O piange di rassegnazione.
In queste stanze, ad Auschwitz, non c’è più posto per la speranza.
E quando penso di aver già visto il peggio ecco che inizia la visita vera e propria, in un crescendo di orrore.
La guida inizia a spiegarci la vita quotidiana, le torture, il carcere, le esecuzioni. La gente che usciva dalle baracche e si buttava contro i fili elettrificati, per scappare nell’unico modo possibile.
Gli esperimenti, le camere a gas, i ragionamenti molto pragmatici su quali fossero le procedure più efficaci per smaltire il maggior numero di persone.
Le montagne di barattoli del prodotto che produceva il gas letale con cui hanno sterminato milioni di persone.
E quando arriviamo a Birkenau le cose precipitano.
Pensavo che con Auschwitz avessimo già toccato il fondo dell’orrore, ma non è così.
Un campo più grande della mia città, nato con l’unico scopo di liquidare la gente. Chi superava i terribili viaggi in treno ed arrivava fin lì aveva solo poche settimane di vita.
Un campo di sterminio spalmato in una pianura che assomiglia più ad una palude, erba e fango nero, sotto un cielo greve. File di alberi a nascondere la vista delle ciminiere.
Li entravano persone ed usciva cenere, e solo pochi hanno avuto il coraggio di sfidare il sistema per documentare questo orrore.
Da una parte del viale le baracche in legno, dove dormivano centinaia di persone, quasi completamente esposte alle intemperie. Dall’altra un bosco di camini di mattoni, le uniche strutture rimaste in piedi dopo l’abbandono del campo. In mezzo spazio e sullo sfondo le sagome scure dei forni crematori. Ad Auschwitz abbiamo visto una mostra fotografica e la guida ha attirato la nostra attenzione su alcune foto in particolare. Ora ci mostra dove sono state scattate, così che sia possibile per noi sovrapporre la foto alla realtà.
E’ un modo per fissare nella nostra mente che tutto quello che stiamo vedendo è reale.
In una foto si vedeva un ufficiale delle SS ccon una fila di prigionieri davanti. Lui faceva un cenno con il pollice per indicare all’uomo davanti a lui dove doveva andare.
Sullo sfondo una baracca e decine di persone anziane in una fila disciplinata che arrivava fino al margine della foto.
Alzando gli occhi e guardando il campo si capisce che erano diretti ai forni, gli anziani non erano più in grado di lavorare. I bambini, gli inutili venivano liquidati per primi.
Venivano accompagnati “a fare la doccia”. Li facevano spogliare, dicevano loro di ricordarsi il numero del posto dove avevano lasciato le loro cose.
Poi li facevano entrare in una grande stanza che sembrava un bagno e li uccidevano con il gas. (Nella foto le rovine di uno dei forni)
Successivamente squadre di prigionieri si occupavano del resto: raccoglievano i vestiti, spogliavano i cadaveri di ogni avere, strappavano i denti d’oro e infine li caricavano per portarli ai forni.
Anche adesso che lo scrivo, anche dopo averlo visto con i miei occhi ho difficoltà a crederci.
Gli altri, gli abili, vivevano nel campo e svolgevano tutti i lavori necessari. La loro vita si prolungava solo di qualche settimana, e se si ammalavano o semplicemente si consumavano venivano cancellati dalle liste degli abili e mandati in baracche a parte, ad aspettare di essere gassati. Poteva volerci poco tempo o potevano servire giorni, loro potevano solo aspettare, senza mangiare, senza potersi scaldare. Non erano più in lista quindi erano morti.
Questa non è una visita normale, il carico emotivo è notevole. E’ una cosa da mettere in conto se si progetta di visitare un posto del genere.
Io consiglio senz’altro una visita guidata, ci sono tanti modi di avvicinarsi a questo argomento, e forse la guida di una persona pacata e rispettosa è d’aiuto.
Per tutto quello che serve a livello organizzativo vi metto il link del museo. E’ possibile prenotare online le visite guidate, ma quelle in italiano non sono molte, meglio prenotarle con un certo anticipo. I campi di Auschwitz e Birkenau si trovano ad una settantina di chilometri da Cracovia, ad Oswiecim.
Per raggiungerli ci sono treni ed autobus – qui i link dal sito del museo – ma noi siamo andati con tour privato acquistato da Get your guide.
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